PROVA

Italiano


Nessuno può coprire l'ombra

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by Marco Martinelli and Saidou Moussa Ba
on stage: Mandiaye N’Diaye, Mor Awa Niang, El Hadji Niang . set and design: Ermanna Montanari . lights: Giancarlo Cottignoli . direction: Marco Martinelli . production: Teatro delle Albe Ravenna Teatro, Festival CTE, Nuova Scena-Teatro Testoni Interaction

Debut Bologna, I.T.C. San Lazzaro, november 12 1991


2005 - Marco Martinelli places second for the Ubu prize 2005 in the category “New Italian Text” for Salmagundi. Favola patriottica.



Press reviews:

"Se l’importanza di un evento artistico si misura in modo decisivo – e così dev’essere – dalla quantità di rischio estetico ma anche civile o ancora di pensiero o finanche profetico impiegato, allora non c’è dubbio che Salmagundi di Marco Martinelli, sorta di operetta meta-patafisica messa in scena dal Teatro delle Albe, richiede grande attenzione. Sotto le mentite spoglie di una farsa comica surreale, lo spettacolo rivela un pensiero complesso.
La storia ripercorre in chiave antiromantica il plot della Maschera della morte rossa di Poe. Siamo nel 2094 e in Italia da trent’anni non esistono più malattie. L’Istituto Nazionale per la Prevenzione delle Epidemie, non avendo più malattie da curare, è diventata una pura organizzazione di potere. Il giovane neolaureato Julius T. Merletto segnala però il caso dello zio Gustavo, che presenta una ferita al cuore ormai in suppurazione, che va trasformando quel cuore in qualcos’altro: un salame cotto.
Il potere della medicina (che c’è anche quando la medicina non c’è) gli si oppone duramente. Perché introdurre questo disordine in un mondo così bello, nel quale la salute è puro spettacolo, nel quale gli ottantenni hanno vent’anni, e nel quale le prove del male – mediche, giudiziarie etc. – sono state da tempo sostituite dalle prove per gli show, unica vera attività dell’Istituto?
Le vicende altalenanti di Julius, che passa casualmente dalla disgrazia alla fama alla mediocrità, ci presentano la società-spettacolo trapassata dalla lama di una critica sociale che, dal Molière del Malato immaginario a Jarry, fino al Buñuel del Fantasma della libertà, attraversa tutta l’Europa dimostrando che col teatro il pensiero si può non solo rappresentare, ma anche fare.
Al centro di Salmagundi mi pare ci sia il tema del Tempo. Come la società-spettacolo ci ruba il tempo della vita, così Martinelli mette in scena questo furto, facendoci in un’ora e mezza la cronaca di una frazione di secondo, l’anatomia di un’esplosione – quel momento, potente come una bomba atomica, in cui dal nucleo del Senso si separano i segni, le parole, le voci, in breve la chiacchiera, e tutto questo vuoto diventa ignobilmente pieno di sé, un pieno-vuoto che l’unico elemento simbolico del testo, il salame cotto che sostituisce il cuore (sede del pensiero-emozione, del desiderio-realtà), esprime compiutamente nella sua invasione di grasso.
Uno spettacolo bello, divertente e di grande densità di pensiero".

(Luca Doninelli, "carmillaonline.it")


"E’ qui, a questo snodo, che l’apologo prende un’altra piega. Cioè si sbarazza della vicenda satirica e della sua retorica “progressista”. Per andare nella direzione di uno sregolato avanspettacolo marxiano o marziano, nel senso dei fratelli Marx, dove si mescolano affollate gag e tableaux vivants, ciaccone e musiche di Lully, omaggio o solo memoria inconscia di quell’altra bellissima favola nera che fu L’impero della ghisa di Leo de Bernardinis. Merito anche della ventina di giovani e giovanissimi interpreti che affiancano due storici attori delle Albe, Luigi Dadina e Maurizio Lupinelli, con i quasi “veterani” palotini dei Polacchi ormai tre generazioni che convivono sulla scena".

(Gianni Manzella, "Il Manifesto", november 28 2004)


"Per chi conosce il lavoro di Marco Martinelli, il percorso è chiaro, coerente. E’ il suo modo di fare teatro politico, mescolando Brecht e Jarry, la Romagna e Karl Valentin. Si parte dai Refrattari e, passando per I Polacchi e Tingel Tangel, si approda a Salmagundi, di cui il dialoghetto Vi e Ve (visto a Santarcangelo) era una sorta di avamposto per temi e interpreti (Michele Bandini ed Emiliano Pergolari). Ma non è necessario aver visto gli “antefatti” per comprendere e apprezzare il senso di quest’ultimo spettacolo del regista emiliano. Siamo nell’Italietta ormai de-cervellata del 2094 (ma la macchina per de-cervellare era in funzione già nei Polacchi), in cui tutte le informazioni passate dal potere costituito, vere o false che siano, diventano realtà. Basta cambiare nome alle cose e i contenuti si trasformano in sintonia con il nuovo contenitore. Così l’“Ospedale dei moribondi” solo per aver cambiato nome in “Istituto Nazionale per la prevenzione delle epidemie” ha dato vita a un trentennio in cui nessuno si ammala più. Basta crederci. L’importante è partecipare al Varietà scientifico del venerdì o essere eletti Famiglia del mese, saper ballare il tip tap e cantare l’inno nazionale delle cento pecore mentre il braccio scatta in un saluto sinistro fin troppo familiare. Questa è la felicità e fa rima con stupidità: tutti sani, senza ombre, sotto il vuoto spinto di una festa continua, in cui le luci caravaggesche di Vincente Longuemare e le musiche barocche di Haendel o Lully già lasciano intuire che quell’ossessivo tip tap è in realtà una danza di morte. Ma come in tutte le favole, anche qui c’è qualcuno che dice che il re è nudo. E’ un dottorino fresco di laurea a scoprire la vulnerabilità della sua razza felice: suo zio Gustavo ha una piccola ferita vicina al cuore, che si sta trasformando in salame cotto. Ma Martinelli non vuole dare ricette né fare la morale della favola. Sua intenzione è mostrare, costringendoci a una risata demenziale, che lascia pensieri scomodi nella testa. Il gusto per la satira fantastica, che lo porta a sottotitolare la pièce “Favola patriottica”, fa sembrare tutto molto naïf e semplicistico, nel testo come nella messinscena. Ma non è così. Al contrario: proprio per rendere questo clima “spensierato” ci vuole un notevole rigore, soprattutto nella direzione della compagnia. E i giovani che la compongono rispondono bene, eseguendo con bella professionalità, sotto lo sguardo attento dei “veterani” Luigi Dadina e Maurizio Lupinelli, la partitura recitativa (e non solo) imposta dall’autore-regista. Difficile e ingiusto fare delle graduatorie, ma meritano una piccola citazione a parte il candido zelo alla Jerry Lewis del dottorino Julius T. Merletto interpretato da Alessandro Renda, la sua stralunata e conformista mamma (Daniela Bianchi) e i tre “colleghi” medici (Michele Bandini, Emiliano Pergolari, Alessandro Cafiso) stupidissimi e pimpanti candidati al cuor di salame".

(Claudia Cannella, "Hystrio", december 1 2004)


"Lei non lo sa perché i libri di scuola non lo dicono ma l’Istituto prima, era l’Ospedale dei moribondi. Bastò cambiargli nome, ventisei anni fa, perché nessuno più si ammalasse, perché l’Italia diventasse un caso internazionale”. E’ questa la battuta-chiave di Salmagundi (sottotitolo “favola patriottica), il testo di Marco Martinelli che il Teatro delle Albe presenta per la regia dell’autore: giacché il nominalismo che chiama in causa (le parole, appunto i nomi, al posto della realtà) la dice ben lunga sulla tensione politico-satirica – e intelligente, spietata ed agile insieme – che serpeggia sotto la superficie dell’allestimento giocato tra la farsa, il musical e l’avanspettacolo. (…) Eccellente, infine, la prova che – nel contesto adeguato delle scene e dei costumi di Ermanna Montanari e Cosetta Gardini – forniscono i venti interpreti. (…) La sigla altrettanto intelligente e corrosiva di questo spettacolo, da non perdere, sta nell’accompagnarsi di un immemore e svagato tip tap al solenne e raffinato “Adegio” dal Concerto n. 8 di Arcangelo Corelli".

(Enrico Fiore, "Il Mattino", november 28 2004)


"Cancellare l’effetto per neutralizzare la causa: maliziosa, paradossale, ironica ipotesi su cui Marco Martinelli costruisce il suo Salmagundi, al Teatro Nuovo. “Favola Patriottica” la chiama con dispettosa ironia. E costruisce un’Italia del futuro in cui ogni sintomo di malattia è messo al bando. Quindi ogni malattia è cancellata. Patria di gente sana, ha schiere di medici e ricercatori pagati per essere felici, sorridere e danzare.Mentendo a se stessi e agli altri naturalmente. Tra una canzoncina “patriottica” ed un numero di tip-tap da gran cabaret della follia. Spiritosa sarabanda dagli inquietanti risvolti, gioco di teatro dal ritmo travolgente, piccolo almanacco di stupidario corrente, esercizio di stile del possibile che sembra impossibile. Il pubblico si diverte travolto dalla bravura di una schiera affiatatissima d’attori".

(Giulio Baffi, "la Repubblica", december 2 2004)


"Col tempo ho compreso il motivo principale, fra gli altri, del continuo diletto che ricavo dalla lettura delle drammaturgie di Marco Martinelli e dalla visione delle creazioni del Teatro delle Albe. Oltre all’ironia, oltre a ricorso, sovente abbondante e soverchiante, dell’artigianato sulle lingue, del meticciato che abbraccia wolof e ravennate, italiano e fantalinguismi, oltre al saccheggio non autorizzato delle opere classiche e moderne, oltre alla composizione colorata e “palotina” dell’ensemble, oltre all’essenzialità delle messe in scena puntualmente connotate da trovate tanto semplici quanto sorprendenti, oltre alla magia delle variazioni vocali ed espressive emesse da Ermanna Montanari, oltre a tutto questo, se già non bastasse, c’è un carattere fondamentale: la scrittura vissuta come esercizio fenomenologico. I testi teatrali di Martinelli – tutti temprati e riscritti dall’azione scenica – si svolgono in lettura ed in messa in scena come le tavole di un polittico, i personaggi/attori ruotano per scavare nel senso delle ridefinizioni, i termini del linguaggio vengono analizzati nelle implicazioni di significato e nelle associazioni sonore, ed ogni affermazione si porta dietro innumerevoli incastri, innumerevoli giochi di parole. Fenomenologia dunque, ma non didattica: il moralismo in Martinelli non eccede l’azione sul palco, ed anche quando si fa più esplicita, più goliardica, la voce dei caratteri non oltrepassa quella soglia invisibile oltre la quale il gioco del teatro decade in pattume televisivo ed in sproloquio eulogico, in testo scientifico a tesi, in documento meramente esplicativo. Una venata ironia mette dunque in risalto le piccolezze, le incertezze, le indecisioni, ed in fondo, l’umanità dell’Italietta disegnata da Martinelli nel corso di vent’anni di scritture. Ma si tratta d’un’ironia sottile, mai sfacciata, quasi un’anti-ironia che si misura nel compito di trascinare lo spettatore allo specchio, talvolta rivalutando anche gli aspetti negativi. Tutto questo era presente in Rum. Romagna più Africa uguale, Siamo asini o pedanti?, Bonifica, I Refrattari, I ventidue infortuni di Mor Arlecchino, Incantati, I Polacchi... tutto riemerge in Salmagundi, una “favola patriottica” nell’Italia del 2094, un paese baciato dal miracolo sanitario, una situazione che ravviva il ricordo delle simpatiche bricconate che venivano propagandate dai teorici della gioventù fascista e della più seriosa purezza della razza ariana. Da circa tre decenni nessun italiano si ammala. Vanto dell’avanzamento scientifico italico è L’istituto Nazionale per la Prevenzione delle Epidemie, emerito ricettacolo delle massime autorità in ambito medico. Il giovane laureato Julius T. Merletto, un perfetto-imbecille ben impersonato da Alessandro Renda, scopre che lo Zio Gustavo è ammalato al cuore, e prima ancora di imbustare la lettera viene invaso dai membri dell’Istituto, che occuperanno l’abitazione fino al compiersi della favola. Durante l’invasione si avvicenderanno siparietti da teatro di rivista, si mescoleranno tentativi di scalata ai vertici, tradimenti, e troveranno modo di evidenziarsi le reali incompetenze dei vari luminari. L’emerito Istituto si disvelerà dunque come istituzione solennemente svuotata da ogni competenza ed i membri moriranno ammalandosi nell’abitazione di Merletto. Un debacle tutta italiana. Lo spettacolo offre la compresenza in scena degli energici attori scelti della truppa palotina, che dal ‘98 con lo spettacolo I Polacchi incendiano i palcoscenici d’Italia e di mezza Europa con le loro asprezze – negli ultimi anni vanno ricordati anche spettacoli come Imparare è anche bruciare dei Valdoca, Noccioline di Paravidino per la regia di Barbara Nativi, Binario morto di Letizia Russo già ampiamente applaudito in Inghilterra e Portogallo, al debutto all’imminente Biennale di Venezia – e delle colonne della compagnia, Luigi Dadina e Maurizio Lupinelli, entrambi ottimi nel definire il ritmo delle trasformazioni in scena, nel tutelare l’amalgamarsi delle individualità, o come si direbbe in gergo calcistico, nel dirigere il gioco in campo. La regia di Martinelli riesce nel non facile compito di organizzare i movimenti e le staticità di ben venti attori racchiusi in uno spazio ristretto, nell’orchestrare il “processo di saturazione dell’inquadratura” (1), con diversi fermi immagine che ricordano un patinato scenario caravaggiesco. Ottime le luci, firmate da Vincent Longuemare. Ottimo l’intero cast fra i quali spiccano per asciuttezza di gesti e modulazione di recitazione Michela Marangoni, nella parte della Signora Balsamo (la famiglia del Mese) e Daniela Bianchi, nella parte della madre defunta del protagonista. Da sottolineare come questo spettacolo raccolga una delle recenti riscoperte del cinema – penso ad esempio a Zatoichi di Takeshi Kitano, e prim’ancora a Dancer in the dark di Lars von Trier – ovvero la danza in scena: gli attori, difatti, si esibiscono in un misurato tip tap, durante la celebrazione dell’inno nazionale. Uno spettacolo da non perdere".

(Tiziano Fratus, "manifatturae.it")


"Siamo in una futura Italia del 2094 in cui ha preso il dominio l’attuale cultura massificata e abbruttita dei tanti talk e reality show televisivi. A ritmo di tip tap si decidono le carriere dei componenti di una clinica medica divenuta inutile in quanto nessuno si ammala più. Fino a quando qualcuno non indica col dito la falla del sistema (una nuova epidemia si sta diffondendo e la si può curare semplicemente giocando col ribaltamento del senso delle parole), e se rivela che il re è nudo non lo fa per cambiare il sistema ma solo per farsi a propria volta re. Assistiamo ad un apologo violento che trova affinità con illustri precedenti in Swift, nel Brecht di “Un uomo è un uomo”, nel Fo degli esordi e nell’ultimo Ionesco con qualche perplessità di drammaturgia, ma la cui forza graffiante lascia le cicatrici. Nelle forme di un irriverente quasi-musical recita coesa una compagnia formata da ben venti attori capitanati dal veterano Luigi Dadina, tutti perfettamente coordinati tanto nelle azioni coreografiche quanto nell’orchestrazione delle battute".

(Sandro Avanzo, "Liberazione,", july 21 2004)



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