UN'IDENTITÀ DA SEMPRE FRAMMENTATA E PLURALE DA RICOSTITUIRE IN FORMA APERTA
Come l’archivio teatrale delle Albe intercetta, raccoglie e rilancia le forze centrifughe che sottendono ai processi di lavoro della compagnia e che agiscono in vario modo per una radicale destituzione della dimensione umana per come siamo abituati a considerarla, allo stesso modo capta, custodisce e tiene in vita le forze a esse opposte. Quelle che dal ‘solve’, dalla disgregazione dell’umano ai suoi elementi primi, permettono il ‘coagula’, ossia una sua riconfigurazione radicalmente differente. Due fasi opposte e complementari, che si dispiegano e agiscono simultaneamente, per le quali a ogni pressione disgregatrice corrisponde una riaggregante, e che l’archivio, come fosse un tavolo anatomico, ci permette di sezionare, distinguere e perlustrare separatamente. È solo nell’attrito tra quei due movimenti uguali e contrari che il lavoro delle Albe si manifesta e si produce.
Uno scarto grazie al quale l’umano si spalanca di là dai suoi limiti comuni, scopre vie di fuga e di connessione inedite, ritrova dinamiche di unificazione che conducono a ricomposizioni di unità che non assumono più i confini dell’io, del soggetto isolato, ma quelli dell’unificazione spalancata a ogni forma – minima o massima – che abita il circostante.
Una unificazione come spazio aperto alle metamorfosi incessanti. E l’archivio delle Albe è attraversato in ogni direzione non solo da tracce concrete di questi movimenti centripeti e riaggregatori, ma anche – innanzitutto – da tracciati di teorizzazioni che articolano e rielaborano in modi differenti questo legame ideale tra dionisiaco e postumano. Per un teatro deantropocentrizzato da ricercare attraverso le differenti conformazioni di là
dall’individuo e dalla specie.
A partire, ancora una volta, dai manifesti di poetica e di pratica artistica che popolano i faldoni relativi agli anni antecedenti alla fondazione, nel 1983, delle Albe di Verhaeren, che mostrano come già le prime istanze che muovevano la ricerca artistica di quel gruppo in formazione poggiassero le loro basi su un’idea di identità frammentata e destrutturata, aperta a un’idea di ‘mistero’ che si riverberava anche nel primo nome scelto dal gruppo: «Un teatro che riscopra il senso del mistero, il mistero che avvolge l’uomo e il suo viaggio terreno, perché mai come oggi, come nella nostra civiltà tecnologica e “razionale”, stupidamente “razionale”, la persona umana ha perduto il senso della propria ragione, del proprio essere, della propria identità». Una identità frammentata da ricostituire attraverso un’idea di pluralità allora infusa di mistero sacro ma già vocata a un superamento dell’isolamento del soggetto, dell’io individuale, dell’umano fine a se stesso.
E se quel primo nome della compagnia istituisce una prima asse verticale che apre all’uomo una prospettiva di apertura e unificazione verso il cielo, verso il sacro e il suo mistero, il nome che assumerà il gruppo successivamente incrocerà quell’asse verticale con una direttrice orizzontale che integrerà ulteriormente la necessità di sconfinamento oltre se stesso. Il nome Linea Maginot, infatti, fa slittare il lessico da quello religioso a quello militare, nel paradosso, però, di una linea che da fortificazione diviene sinonimo di connessione, legame possibile tra il tracciato del palco e quello del pubblico, tra la scena e la polis.
Tornando a quell’opuscolo prodotto da Linea Maginot cui abbiamo fatto riferimento nella sezione precedente, possiamo osservare come, a inaugurarlo, è un’ulteriore rivendicazione di un’idea di identità che coincide piuttosto con una possibilità di riconfigurazione continua. Una frammentazione ulteriore che sfugge all’unità stessa. Una richiesta di riconfigurazione attraverso lo sguardo del lettore-spettatore, per scongiurare una identità chiusa e immodificabile e per aprirsi piuttosto a tante possibili definizioni quanti sono gli sguardi
che proveranno a tracciarle.
E i rimandi interni all’archivio delle Albe sembrano già mettere in risonanza le iniziali dichiarazioni di poetica della compagnia al suo formarsi, con le annotazioni di Ermanna Montanari di qualche anno successive, tratte ancora dal suo diario di viaggio in Grecia del 1986. In una riflessione che attraversa più pagine del diario, Montanari articola il desiderio di un’arte teatrale che non dipenda tanto dalle ‘idee’, così legate a un soggetto razionale inscrivibile in un corpo identificato, per di più, dal colore della propria pelle, ma che piuttosto derivi dal fluire unico della vita nelle sue manifestazioni colte come continuum che ‘aleggia’ di là dalla volontà umana. È il 15 Agosto ’86 e, a Egina, Montanari annota:
«la pelle bianca è colore […] della staticità, della vergogna. Assumiamo il nostro colore, la nostra cattiveria razzista e violenta, assumiamo questo abisso per spalancare il cancello al nero al colore dell’animale ferito senza terra di diritto. Cos’hanno questi luoghi che non hanno i nostri? La musica, il ritmo della vita. Quella vita […] che non è un’idea ma il magma della pienezza. […] Aleggia Kantor… che non ha l’idea. Aleggia Barba… che non ha l’idea. Aleggia la pantera, l’ulivo, i corvi di città. I delfini suicidi, gli eritrei emigrati, il grano senza papaveri e i papaveri nascosti. Aleggia chi anela per un posto alla luce dopo essere stato costretto cieco. Siamo figli della terra, animali feriti, abbiamo lasciato agli altri l’assunzione del ragno e siamo divenuti granchi senza morbidezza, camminiamo laterali perché eretici della mistica di mercato e disertori della guerra delle idee. Abbiamo allungato le chele perché diventassero piume o ali e abbiamo incontrato lance laser. Continuiamo il cammino trasversale, il cammino che ci porta ad essere uno nell’acqua e uno nella terra e insieme qualcun altro. Al di là dell’acqua e della terra, al di là del Paradiso e dell’Inferno, qualcun altro… l’Altro».
Una ricostituzione di un’idea di umano come apertura nella direzione della zoê, strettamente correlata all’origine stessa del teatro nel suo legame con Dioniso e con il dionisiaco, riferimento che torna costante nella storia delle dichiarazioni di poetica delle Albe e che, di fatto, costella l’archivio della compagnia costituendo uno dei suoi centrali leitmotiv. Un riferimento che, in una delle interviste a Marco Martinelli - curata da Francesca Montanino - che l’archivio conserva e che è intitolata proprio I tecnici di Dioniso, si intreccia a un altro concetto chiave per la poetica e la pratica artistica delle Albe, ossia quella di ‘messa in vita’. Afferma Martinelli:
«È il prendere sul serio l’origine dionisiaca del teatro. Dioniso è il dio della vita indistruttibile: i greci non distinguevano tra bello e brutto, avevano un modo più efficace e profondo di distinguere il buon teatro da quello inutile, dicevano “qui c’è Dioniso”, oppure “qui non c’è Dioniso”. Dioniso è il dio “sphalèn”, sfalenante, alla lettera “colui che turba”. Un teatro che non sappia smuovere l’anima dello spettatore, che non gli procuri brividi fisici, non è teatro, è un’altra cosa che non mi interessa. La “messa in vita” è la “messa in scena” capovolta, leggibile nel suo senso più antico e ancora valido e, per quel che ci riguarda, il solo possibile».
Capovolgere la messa in scena nella messa in vita attraverso il dionisiaco equivale, dunque, a rifiutare la mimesis che presuppone un soggetto da rappresentare, precipitandolo, piuttosto, nell’irrappresentabile che si cela dietro il volto di ogni rappresentazione possibile e nello scatenarsi di forze che lo fondono al circostante.
IL DIONISIACO VOLTO PLURALE DIETRO LA FIGURA: I CORPI DELLA NON-SCUOLA
Un ampio attraversamento teorico nel nome della figura di Dioniso è quello che possiamo trovare nel libro di Marco Martinelli del 2016, intitolato Aristofane a Scampia. Si tratta dell’opera in cui Martinelli ripercorre le premesse, la storia e le differenti articolazioni di quel fondamentale percorso costruito dalle Albe in parallelo alla creazione scenica della compagnia a partire dal 1992, ossia quella che, negli anni, prenderà il nome di non-scuola. Leggiamo, attraverso le parole di Martinelli, che:
«Dioniso è il dio del teatro, e i ragazzi non possono ignorarlo. […] Dioniso è il germoglio, la gemma rinascente. Dioniso è l’unica divinità dell’Olimpo greco che conosce la morte, per via della sua natura per metà umana: è a suo modo un dio incarnato, muore e risorge, è il dio-nysos, il "nato due volte". Dioniso è un dio che non può che essere apprezzato dagli adolescenti: ama la musica, i tamburi che fanno crescere il battito del cuore, i flauti che danno la scossa elettrica al cervello, ama il vino, ama l’estasi, la ex-stasis, alla lettera l’essere fuori, è il simbolo della vertigine erotica. È un dio difficile da inquadrare in un programma, perché è il fuori di programma. È l’imprevisto. È lo straniero. È il gatto che balza sul tavolo e scompiglia tutti i fogli. È anche il dio che ha a che fare con la nostra violenza di esseri umani: è insieme la vittima e il carnefice, il capro che viene sgozzato e il cacciatore con il coltello levato, e quella violenza può raccontarcela in chiave tragica […] o comica. Anche nel divertirci Dioniso ci tiene avvinti all’enigma della nostra condizione, all’enigma del sacrificio. […] Dioniso è il dio della maschera, che può indossare tutte le maschere, essere e rappresentare tutti: donna, uomo, vecchio, bambino, cittadino, immigrato. Per questo è così apprezzato dagli adolescenti, per questo a sua volta Dioniso apprezza tanto gli adolescenti, perché abita quel loro stare in bilico».
È come se il primo, fondamentale canale di ricostituzione dell’umano nel segno della sua apertura, che connette l’originaria identità proteiforme della compagnia ai suoi inizi con tutti i processi di trasmutazione successivi che costelleranno il percorso delle Albe e che riempiono l’archivio dei loro sintomi, delle loro tracce e delle loro pulsazioni, fosse proprio la possibilità rappresentata dalla dimensione corale e molteplice che passa per la non-scuola. Passare per la coralità di quei corpi in mutazione, per il loro essere al contempo in trasformazione nella loro vita quotidiana e sulla scena, per il loro essere corpi individuali e insieme collettivi, rappresenterebbe, dunque, quella unificazione instabile da convogliare poi verso la scena, verso i processi principali della compagnia.
Come se quelle masse di corpi adolescenti fossero la dimensione in larga scala di tutte le impercettibili e continue metamorfosi e di tutti i processi di aggregazione che si propagano lungo le opere della compagnia. Quasi che il
lavoro costante e coerente della non-scuola e delle sue differenti declinazioni per tenere attive le spinte al dionisiaco, fungesse da campitura, da fondo di potenze dal quale attingere per il lavoro della compagnia sulla scena.
Se la scuola è soprattutto formazione e costituzione di un soggetto, potenziamento delle sue facoltà, rafforzamento delle sue abilità (in questo caso attoriale e teatrali), la sua negazione, la ‘non-scuola’, appunto, rappresenta il processo inverso di decostruzione ulteriore di quel soggetto già di per sé in mutazione, delle sue abilità presunte e delle certezze che da esse derivano, per spalancarlo al coro, all’unificazione generale di un corpo collettivo che tende verso la dissipazione di quello individuale. Uno sconfinamento oltre se stessi, in una prima, generale mutazione in un corpo vivo collettivo, multiplo, composto da masse di corpi di ragazzini fattisi tutt’uno. Una mutazione che emerge tra le pieghe dell’archivio segnandolo in modo evidente anche nella sua dimensione visiva.
La partizione fotografica, infatti, raccoglie una selezione di scatti relativi alla non-scuola che, presentando visivamente i suoi gruppi di lavoro quasi sempre come masse uniche e coese, si pongono come il corrispettivo molteplice di quelli che, riferendosi agli spettacoli delle Albe, si concentrano sui corpi degli attori soli sulla scena. Anche quando i singoli componenti di quei gruppi vengono raffigurati individualmente – come avviene ad esempio in alcuni scatti relativi a Eresia della Felicità – il ricorso ad abiti di scena uniformanti – come le magliette gialle indossate dai ragazzi per quel progetto – ce li riconducono immediatamente, già a un primo sguardo, a una totalità dalla quale sembrano non essersi mai distaccati.
Così, il corpo plurale visibile nelle fotografie delle differenti esperienze riconducibili alla non-scuola, contrapponendosi nell’archivio delle Albe a quelli individuali si pone, al contempo, come una sorta di loro osservazione al microscopio: una perlustrazione del loro essere Figura, condotta al suo stadio infinitesimale. Come se ci si mostrasse, dunque, la composizione occultamente plurale di ogni Figura scenica apparentemente singolare, come se la visione evidente dell’uno svelasse la natura intimamente molteplice dell’altro, come se, insomma, il secondo si squadernasse nell’immagine del primo per rivelare il suo essere coagulazione sempre proteiforme a dispetto della propria architettura solo esteriormente univoca e stabile.
Fino a quello che può essere considerato come un caso emblematico ed estremo di questa facoltà disvelatrice data dalla natura molteplice della non-scuola, nel suo imprimersi sulla pellicola. Ci riferiamo al piccolo set realizzato da Enrico Fedrigoli nell’estate del 2002.
Si tratta di 5 fotografie in bianco e nero che sembrano rappresentare una sorta di estensione ed evoluzione di quell’altro set di Cesare Fabbri che, attraverso quei 17 scatti che raffiguravano la facciata del Teatro Rasi e le modificazioni analogiche apportate su di essi in postproduzione, parevano farsi immagine visibile della dimensione plurale e in pulsazione perenne di quello spazio. Gli scatti di Fedrigoli, qui, ne riprendono inconsapevolmente il medesimo punto di vista e racchiudono stavolta, in un’unica inquadratura, quella facciata medievale con una moltitudine di bambini della non-scuola a invadere il suo vialetto d’ingresso. I 5 scatti differiscono l’uno dall’altro a volte per dettagli minimi, altre volte in modo più marcato – come per la presenza, in uno di essi, di Marco Martinelli o per la suddivisione del gruppo, in un’altra fotografia, in due sezioni separate al centro. Differenze che, come avveniva con il set di Fabbri, ci mostrano quegli scatti come una tavola cronofotografica che racchiuda il movimento di pulsazione aggregatrice di quell’unico corpo collettivo che quei corpi costituiscono. Due set che, se considerati come complementari, rappresentano, dunque, il sommarsi e il fondersi di due corpi anomali e multiformi come quelli di uno spazio e di una moltitudine di bambini, osservati nel pieno della loro mutazione.
E interrogare il modo in cui la declinazione di un’idea di identità come luogo frammentato attraversa l’archivio delle Albe fin dalle prime dichiarazioni, per poi intrecciarsi con la sua accezione dionisiaca nei corpi collettivi e in trasformazione della non-scuola, significa delineare quelle direttrici che conducono le Figure a ricostituirsi come spazio dell’aperto. Un movimento di coagulazione che, come vedremo in modo più dettagliato nella sezione seguente, agisce sulla scena delle Albe in modi sempre differenti ma accomunati dalla necessità di far sorgere, attraverso i processi creativi, Figure che si pongono come forme diversamente declinate di quello che può essere definito come ‘soggetto nomade’. Una concezione che si lega all’idea di dionisiaco ma in una sua inclinazione verso ciò che negli ultimi anni si è affermato attraverso l’idea di ‘postumano’.
Postumano come ripensamento radicale dell’assetto umano, della sua posizione nel mondo, per un soggetto relazionale determinato dalla molteplicità, nella direzione di un antiantropocentrismo fondato sull'idea di divenire. Soggettività che implica «un profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi i non umani e gli “altri della terra”», come scrive Rosi Braidotti, un profondo "fare coro" col circostante.
E il termine ‘coro’, altra parola-chiave che attraversa la storia delle teorizzazioni che le Albe hanno portato avanti nel corso dei decenni, ci conduce al testo intitolato, per l’appunto, Coro (2023), che Marco Martinelli ha scritto indirizzandolo soprattutto alle numerose ‘guide’ della non-scuola sparse per l’Italia. Proprio in Coro le direttrici che si muovono tra l’idea di decostruzione di sé e di una dionisiaca apertura di là da se stessi trovano l’ultimo spazio di convergenza, chiarendosi ulteriormente in un’articolazione al contempo teorica e di prassi. Scrive Marco Martinelli:
«Dicendo “io sono noi” mi ritrovo ai piedi di una montagna impervia, e che mi tocca scalare. […] E se tu fossi lì per accoglierla tutta quella umanità, come un vaso vuoto pronto a essere attraversato, se tu fossi lì per farti concavo, in un certo senso per annientarti? […] Annientarsi, perché attraverso il nostro niente passi quella moltiplicazione vertiginosa di stelle. […] l’identità che si costruisce nel dialogo fecondo con l’alterità, Io-sono-io-ma-sono-anche-l’Altro, Io-sono-umano-ma-sono-anche-pianta-animale-stella, Io sono Noi, i molti che postulano l’Uno, il finito che richiama l’Infinito. […] Il lavoro del coro mi ha sempre fatto pensare agli stormi degli uccelli in volo. Quegli ipnotici voli di puntini neri, li vedete, li vedete mentre li evoco? Disegni sorprendenti che incessantemente si trasformano, giù in picchiata e poi su e poi in ogni direzione, un magico andare nell’aria che tiene legato quello sciame senza che ci sia nulla di meccanico a farlo, ma solo un naturale, organico comporsi e ricomporsi di figure. Chi li guida? C’è un corifeo? C’è un uccello guida? Sembra di no. Eppure che incanto! Che corale armonia! Anche nel gioco del cerchio, a un tratto, quando ci si sarà affiatati, quando il respiro dei molti, per una inspiegabile magia, si farà uno, anche nel cerchio degli umani la iniziale, necessaria differenza tra la guida-corifeo e il coro, comincerà a svanire, e si sarà come uccelli in volo. Nell’azzurro».